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    Home»Approfondimenti»I nuovi scenari del welfare: se e quanto conta ancora la parola “State”
    Approfondimenti

    I nuovi scenari del welfare: se e quanto conta ancora la parola “State”

    7 Febbraio 2018Updated:18 Maggio 20220 Views
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     di Paola De Vivo Prof. Ordinario di Sociologia Economica Università Federico II di Napoli

    La dimensione dell’incertezza è predominante nelle società attuali. Esse si ritrovano al centro di un generale processo di cambiamento che è intellegibile nella spinta verso forme estreme di individualizzazione e nella metamorfosi che stanno subendo alcuni dei pilastri su cui era in precedenza organizzata la vita collettiva. Le tre principali sfere dell’economia, dello Stato e della società su cui si fondava l’appartenenza sociale erano collegati tra loro dal robusto filo della solidarietà che, tessuto dallo Stato, serviva a mitigare i fallimenti del mercato e a generare inclusione sociale. Universalismo degli interventi, equità sociale e redistribuzione fiscale caratterizzavano il modello di welfare state, un modello che ha resistito in Europa, pur nelle specificità di ciascun paese, per un lungo periodo storico. Il welfare state è stato una conquista ed una costruzione sociale intriso di una concezione che usa deliberatamente il potere pubblico come uno strumento per mitigare gli esiti socialmente indesiderati delle forze del mercato, garantendo agli individui e alle famiglie in difficoltà la possibilità di godere di un reddito minimo per la riproduzione della loro funzioni vitali, permettendogli di far fronte a quelle fasi critiche che si verificano nell’arco dell’esistenza, quali la malattia, la vecchiaia e la disoccupazione, garantendo inoltre a ciascun cittadino, senza distinzione di classe o status, gli stessi diritti. I due termini di cui si compone il “welfare” (benessere) e lo “state” (lo Stato) ben rendono in un caso quale sia stata la sua finalità principale, ovvero quella di far progredire e modernizzare la società attraverso estesi programmi pubblici, e nell’altro a quale attore era attribuito questo compito di integrazione del sociale.

    Dalla crisi di quello che è stato definito il “primo” welfare sta emergendo il cosiddetto “secondo” welfare. Quest’ultimo, almeno per ora, si è aggiunto al “primo ” che perciò continua ad operare, sebbene in modo meno generoso rispetto al passato per la crescente riduzione della spesa pubblica. Discutere oggi di nuovo welfare significa addentrarsi in un campo di analisi in via di definizione, ma ciò non esime dal proporre qui un interessante esercizio. Esso consiste nel tentativo di individuare come si stiano ridefinendo le politiche sociali e quale direzione stiano seguendo i percorsi di sperimentazione e di innovazione che si vanno innestando nel preesistente sistema di protezione sociale. Che si tratti di una materia complessa da trattare si nota subito dal modo in cui si sta procedendo per riformare il welfare. Ciò che si evince palesemente è infatti una frammentazione delle modalità di intervento e una crescente differenziazione della platea dei beneficiari, con in più una accentuata disparità territoriale nell’erogazione delle prestazioni. Si tratta di aspetti che fanno perdere quella coerenza di fondo che prima caratterizzava l’impianto dei programmi di assistenza pubblica e che lasciano trapelare un intento politico non del tutto esplicitato ma in fondo evidente, quello di voler liberalizzare e privatizzare le politiche sociali. Va ribadito che, come si è anticipato, si registra attualmente una coesistenza tra il precedente regime welfaristico di impronta pubblica e i nuovi dispositivi di impronta privatistica, questi ultimi messi anche essi in campo per tamponare i problemi e le emergenze sociali e lavorative. Un punto da portare all’attenzione è che il mercato, in parte ritenuto responsabile attraverso i suoi fallimenti e le sue ricorrenti crisi di quanto accade nel sociale, si adopera e trova nuovi spazi di azione in questo ambito. Si è appena detto che il welfare tradizionale, nonostante vincoli finanziari, limiti amministrativi e criticità nell’erogazione delle prestazioni resiste e che, quindi, accanto ad esso che si sostanzia di un carattere pubblico, si sono sviluppate forme di welfare complementari e compensative che puntano a creare forme di cooperazione tra soggetti pubblici e privati con programmi di intervento che vengono contrattati direttamente dalle imprese in accordo con i sindacati oppure realizzati in accordo con altri enti territoriali. La ricchezza del lessico usato per concettualizzare il “secondo” welfare rende bene la complessità da cui è attraversato: welfare mix, plurale, generativo, comunitario, territoriale, aziendale. Già dal fiorire delle varie denominazioni che hanno queste tipologie di welfare emerge che ad esse viene attribuito un ruolo secondario rispetto a quello primario che continua ad esercitare lo Stato, ma sarà sempre così? Nulla toglie, cioè, che la subordinazione che sembrano attualmente rivestire i più recenti programmi e dispositivi di contrasto all’esclusione non possa trasformarsi in prospettiva in un’offerta sostitutiva dell’assistenza sociale cui si era tradizionalmente abituati, data la diffusione e capillarità di cui stanno godendo queste sperimentazioni. Vi sono indicazioni precise in questa direzione: il welfare aziendale, per esempio, da quando è stato introdotto ad oggi è in una costante crescita ed anzi si prevede per il futuro una ulteriore espansione anche nelle piccole e medie imprese. I sistemi di welfare aziendale si compongono di aree di intervento inerenti la previdenza complementare, la sanità integrativa, le politiche per la famiglia, e i programmi di formazione. Il welfare territoriale, ancora, per quanto in modo meno veloce e rarefatta, sta anch’esso iniziando a prendere piede nelle aree meno arretrate del nostro paese, dove si sperimentano forme congiunte di azioni ed interventi concordati attraverso la contrattazione territoriale, operando con una logica di integrazione rispetto alle carenze del sistema di welfare nazionale.

    Ma qual’è l’impostazione concettuale che sorregge e accomuna gli strumenti di welfare di cui si sta discutendo? Posto che è difficile rinvenire, anche in questo caso, una unitarietà nelle prospettive teoriche adottate, basti qui per ora sottolineare che nella maggior parte dei filoni emergenti assume una centralità indiscussa la ricerca di un nuovo concetto di cittadinanza, basato sull’idea che occorra al contempo prendersi cura del cittadino e avere cura delle risorse pubbliche. In questa accezione di significato, si tratta da parte delle istituzioni territoriali, di rilanciare il concetto di diritto della prestazione, ponendo al centro della impostazione degli interventi i bisogni unitari della “persona” – aldilà delle specifiche politiche sociali, occupazionali, sanitarie – evitando le disfunzioni, le sovrapposizioni, la settorializzazione, che spesso caratterizzano la gestione dei servizi. Da parte dei cittadini, avere cura di ciò che ricevono, significa accrescere il proprio contributo civico, evitando gli sprechi e valorizzando le risorse ottenute dal sistema pubblico. Prendersi cura del cittadino e avere cura delle risorse costituiscono le premesse per un rinnovato progetto di cittadinanza, che sostiene in definitiva una condivisione di senso rispetto al bene pubblico e alla sfera dei diritti collettivi. Le pratiche di innovazione dei sistemi di protezione sociale puntano a responsabilizzare i beneficiari e le istituzioni coinvolte nell’ambito delle politiche sociali e a costruire un nuovo modello di cittadinanza ispirato, oltre che ai valori del lavoro e della democrazia rappresentativa, al principio della partecipazione del cittadino nell’esercizio dei propri diritti. Il ruolo delle istituzioni preposte al raggiungimento di questo obiettivo generale è quello di incentivare, da un lato, una cultura politica ed amministrativa maggiormente orientata alla corretta gestione dei servizi e, dall’altro, di favorire l’acquisizione da parte dei cittadini di una nuova consapevolezza verso i propri diritti individuali e i propri doveri collettivi. Questo passaggio così cruciale implica, tra le altre cose, che occorra agire sulla cultura degli attori istituzionali coinvolti in questi processi, e tra questi i sindacati, per modificarne le logiche di azione e per scardinare le forme di resistenza tuttora presenti al loro interno. Il cambiamento di ordine culturale prospettato sul piano delle politiche sociali viene perciò sostenuto rilanciando alcuni principi tipici delle politiche negoziali e del New Public Managment che spinge sull’introduzione di principi di mercato nelle attività pubbliche al fine di agevolarne processi di efficienza ed efficacia, quali la selettività degli interventi, la concentrazione delle risorse finanziarie, la concertazione degli interessi, l’integrazione e l’innovazione sociale. Dato il carattere sempre più esteso e diffuso dei fenomeni di marginalità sociale si tratta di selezionare – di operare delle scelte circoscritte – riguardo i destinatari, i territori e gli ambiti tematici su cui concentrare maggiormente risorse finanziarie e competenze amministrative. La selettività, applicata ai destinatari degli interventi e ai bisogni sociali da questi espressi, risponde a modalità di coinvolgimento individuate sulla base di specifici criteri che tendono a restringere l’area dei potenziali beneficiari. Tali criteri riguardano la tipologia delle risorse economiche e relazionali possedute; le capacità individuali potenzialmente attivabili; la natura delle problematiche personali e familiari da affrontare. L’obiettivo è di predisporre delle azioni mirate che vadano a contrastare due dei percorsi tipici delle situazioni e delle condizioni di emarginazione. Il primo si rispecchia nella situazione di quei soggetti in bilico tra una situazione di debole integrazione e una concreta possibilità di cadere nelle sacche dell’esclusione, il secondo si riflette in una condizione strutturale di povertà estrema, sperimentata da gruppi totalmente privi di risorse economiche e relazionali. Vengono così concepiti sostegni ad hoc per quei soggetti che potenzialmente potrebbero “scivolare” in una situazione di povertà dopo aver vissuto una fase transitoria di disagio sociale. Basti pensare prima di tutto ai disoccupati di lungo periodo, ai giovani in cerca di prima occupazione, agli anziani, alle donne costrette a lasciare il lavoro per la scarsa conciliabilità con le attività di cura della famiglia. Vengono inoltre disegnati dispositivi istituzionali che riaffermano la necessità di politiche redistributive di sostegno al reddito (come, per esempio, il REI) ma accompagnate da politiche attive. Il principio della concertazione nell’ambito della programmazione delle politiche sociali viene rafforzato da una serie di azioni previste con il fine di dare maggiore impulso alle forme di cooperazione pubblico-privato (welfare mix) nella predisposizione di piani di intervento, nonché nella loro realizzazione, a livello regionale. L’autonomia legislativa delle regioni italiane in materia di politiche sociali, sancita con la 328 nel 2000 e confermata ulteriormente con la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001, ha notevolmente complessificato i rapporti tra i diversi livelli istituzionali e le organizzazioni del terzo settore.

    Alla luce dell’evoluzione che sta avendo soprattutto in Italia la legislazione sul welfare, inclusa la riforma del Terzo settore, la domanda da porsi è se in questi scenari si arriverà in prospettiva verso una mercatizzazione delle politiche sociali e una differenziazione nel godimento dei diritti di cittadinanza. Il vero tema su cui interrogarsi è, cioè, sino a che punto il funzionamento del welfare possa basarsi sulla coesistenza di almeno tre diverse concezioni di ciò che intende oggi per protezione e assistenza sociale: un approccio tradizionale pubblico; un approccio che ha come fulcro la contrattazione tra azienda e sindacato; un approccio che mette al centro la rete dei servizi territoriali e gli attori che la compongono. La ricomposizione di un mosaico fatto di pezzi da incastrare non necessariamente abbassa i costi finanziari degli interventi e delle prestazioni, poiché richiede che si innalzi il livello di coordinamento nella filiera istituzionale in senso verticale e orizzontale; poiché richiede un apparato burocratico flessibile e ricettivo rispetto al cambiamento; poiché richiede una condivisione culturale di un progetto comune e una mediazione degli interessi locali e nazionali molto forte. Rimane da chiedersi, allora, prima della progressiva sostituzione del vecchio con il nuovo che si sta affacciando, se non vi sia bisogno di realizzare nei luoghi che contribuiscono alle decisioni pubbliche, come i sindacati, una riflessione più approfondita su come costruire una rinnovata solidarietà sociale e su chi pagherà i costi, non soltanto finanziari, dei nuovi assetti. In altre parole, su quanto il nuovo welfare sarà veramente in grado di includere tutti gli esclusi, non pretendendo di scegliere tra questi chi è che ne ha diritto e chi invece non può accedervi.

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